Rosenrot Woodville

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  1. the witch
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    ROSENROT WOODVILLE, THE WITCH OF MISTWOOD

    › date of birth
    09.aprile - 27 anni



    › provenance
    collina del corno



    › race
    umana - andali



    › faith
    sette dei



    › alignment
    neutrale buono



    › role
    guaritrice



    › current rank
    popolana
    ᴇʀʙᴇ imparai le nozioni d'erboristeria da mia madre, che a sua volta le apprese da mia nonna e così via. Tra le donne della mia famiglia, che sempre hanno operato come guaritrici, era una tradizione istruirci a vicenda sull'uso delle erbe e degli impacchi. Imparai fin da subito a tenere un taccuino di appunti, sul quale registro ogni nuova pianta o fiore, per scoprirne gli impieghi e la tossicità. Insieme all'uso delle erbe come rimedio a febbri, malanni e per alleviare il dolore, mi è stato anche insegnato ad occuparmi di ferite e quant'altro, pratica molto utile quando hai un marito ricucito come un lenzuolo.

    ᴠᴇʟᴇɴɪ allo stesso modo in cui impiego le erbe per guarire, so usarle per l'effetto opposto. Posso creare distillati letali soltanto con un po' di Belladonna, provocare febbri mortali o avvelenare le acque. E' una conoscienza di cui non avevo mai fatto uso, finché non fui costretta a fuggire nel bosco. Da allora, ne proteggo i confini proprio in questo modo, muovendomi come un fantasma e colpendo indirettamente. A questo mi è valso il nome di Strega di Mistwood.
    A
    A Collina del Corno era considerata in assoluto la più bella tra le sue sorelle, e probabilmente anche una delle fanciulle più graziose di tutta la cittadina. Per Ivar, suo marito, era l'incarnazione stessa del bene, e di tutto ciò che ci fosse di meraviglioso al mondo. Parole esagerate, certo, ma sentirle pronunciare da lui era sempre un colpo al cuore. Per quanto egli l'avesse scelta per l'intelligenza che le brillava nello sguardo, e per quel suo carattere complesso, a tratti impossibile, nessuno avrebbe mai dimenticato l'espressione del cavaliere il giorno in cui la famiglia Woodville li aveva presentati, mostrandogli una Rose ancora quindicenne. Era circondata dalle sue sorelle e da altre coetanee, eppure qualcosa nel suo aspetto aveva colpito Ivar. Il modo in cui aveva sorriso, probabilmente. Nessun doppio fine miserabile, nessun losco progetto di seduzione. La donna aveva sorriso senza preoccuparsi di tutto ciò, distendendo le labbra carnose in un angolo di cielo. Come un raggio di luce che ferisce le nubi grigie dopo un temporale. Si era inchinata profondamente, imbarazzata ma sicura di sè stessa, con quel suo sguardo deciso, autoritario, ed i lunghi capelli color ebano le erano ricaduti sulle spalle e ai lati del volto, incorniciando alla perfezione le iridi verdi come le lande umide della loro terra. Senza volerlo, lo aveva attratto fin da subito, facendosi desiderare come una sorgente d'acqua nel deserto, facendosi amare da esso. Con gli anni, Rosenrot non poté che diventare più matura, e la sua bellezza sbocciò infine in quella di una donna dai fianchi torniti e le forme gentili. Sebbene non superi il metro e settantacinque, serba una grazia difficile da trovare nelle donne del suo basso rango, fatta da movimenti leggeri e naturali, liberi di qualsiasi malizia. Rose è infatti genuina ed estremamente autentica, uno specchio di sé stessa in grado di riflettere soltanto ciò che è realmente. Non può certo vantare una grande mole, come ogni donna è infatti minuta ed esile, ma all'interno del suo corpo femminile alberga una grande forza, data dalla sua natura. Sebbene non sia una combattente, suo marito le insegnò a difendersi con il pugnale, o con qualunque cosa le capitasse a tiro.

    S
    il particolare più evidente, è l'abitudine ad indossare colori prettamente scuri. Da quando Ivar è stato assassinato, infatti, Rose non ha mai smesso di portare il lutto. Inoltre, è solita celare il viso con veli o cappucci, fattore che ha soltanto reso più spaventosa l'idea della creatura che si aggira tra gli alberi della foresta adiacente a Mistwood. Unico gioiello che Rose ama indossare, è una collana di argento dalla forma di una mezza luna, un regalo di suo marito che soleva scherzare sul fatto che sua moglie fosse "una strega".
    C
    Rose sorrideva spesso, prima che avvenisse la tragedia. Le sue labbra erano sempre pronte a piegarsi in modo delizioso, allietando la giornata di chiunque la vedesse sorridere a quel modo. Aveva un sorriso puro, sincero, pulito. Di lei si parlava come di una donna semplice, senza particolari ambizioni, ma con un cuore tanto grande quanto coraggioso. Piccola eppure dal polso fermo, aveva stregato Ivar, sconvolgendolo dall'interno come un tifone violento. Lui che come ogni uomo cercava una moglie zerbino da mostrare come un trofeo ed ingravidare, che si piegasse alle sue voglie quando più ne sentiva il bisogno, si era scelto la più irrequieta, indipendente, manesca e arguta donna che esistesse al mondo. Non era mai stata assogettata alla misoginia del mondo in cui viveva, un mondo fatto da uomini per gli uomini, tantomeno alle voglie irrequiete di suo marito, che contro di lei, anche nelle peggiori discussioni, non era mai stato in grado di alzare un dito. Forse perchè l'amava troppo, o perchè in lei trovava l'unica vera donna in grado di contrastarlo, traendone quasi un certo divertimento. Il sorriso sparì dalle sue labbra in una folata di vento, portandosi via Ivar, Mistwood e la sua pace, e lasciando un involucro di gelida consapevolezza. Ad oggi, Rosenrot è una donna complessa, difficile da comprendere. Ci si trova di fronte ad una personalità algida, fredda e sottile. Un'instancabile madre premurosa, attaccata ai suoi figli con la stessa disperazione di una leonessa, ma al tempo stesso una donna forte, che interpreta perfettamente lo stereotipo della donna di potere, dedita soltanto a proteggere ciò che ama al mondo. Tutto ciò che si vede di Rose è la pura verità: non si nasconde, non si spaccia per una donna migliore di ciò che realmente è. Ormai corrotta dal dolore che le è stato inferto, ha reso il mondo il proprio nemico senza riservare alcuna pietà a chi si inoltra nella foresta, poiché potrebbe rappresentare un pericolo per sé e per i propri figli. Cercare di avvicinarla è come tentare di afferrare l'aria: è una personalità sfuggente, mutevole e solitaria. Questo non fa di lei una donna crudele, ma ha imparito il puro e semplice istinto di sopravvivenza, fatto di scelte: uccidere od essere uccisa.

    F
    Come ha dimostrato in passato, Rose è in grado di sottomettere le proprie naturali paure all'istinto di sopravvivenza e, sopra ogni altra cosa, alla materna protezione verso la propria prole. Per essi ha affrontato la prospettiva della morte e della violenza senza battere ciglio, con il solo timore che non potessero sopravvivere.
    › IVAR WOODVILLE › marito › cavaliere › deceduto
    ci conoscemmo che non ero altro che una bambina di quindici anni. Ivar era un cavaliere, unico modo di fuggire ad una vita fatta di campi e bestiame. Quando mi vide per la prima volta, chiese immediatamente la mia mano a mio padre, il quale gliela concesse con la speranza che potesse darmi un futuro migliore, lontano dalla povertà. Il nostro amore, nato dopo lunghi mesi di corteggiamento, fu spontaneo ed autentico, portandoci ad essere l'uno per l'altra fino al giorno in cui non me lo portarono via.
    › LOREN WOODVILLE › figlio › popolano
    fu il primo frutto del nostro matrimonio, un bellissimo maschio, forte e dal carattere deciso, quanto premuroso e protettivo nei confronti della sorella. Loren è cresciuto con un forte odio verso l'ingiustizia e la violenza, fattori che gli hanno portato via l'amato padre, e tutt'ora posso vedere come il rancore non si sia ancora sopito nel suo animo. Ragazzo istintivo e spesso testardo, a volte i nostri rapporti possono essere conflittuali, ma in lui riesco a vedere sempre di più la figura onnipresente di Ivar.
    › AUTUMN WOODVILLE › figlia › popolana
    la mia piccola bambina dall gote rosse e gli occhi di smeraldo. Autumn è stata la secondogenita, una bambina estremamente solare e giocosa, dolce quanto bisognosa di cure, ma al tempo stesso è stata in grado di dimostrarsi forte, quando la nostra vita è stata completamente devastata. E' estremamente legata a suo fratello, che si occupa di lei con dedizione e amore.

    P
    A WITCH FOR A WIFE
    Il vento proveniente dal Golfo dei Naufragi e dal Mare di Dorne era carico di salsedine, e nei giorni umidi, neanche il Bosco delle Piogge riusciva ad impedire che l'aria a Mistwood si impregnasse dell'odore aspro del mare. Quando avevo sposato Ivar, avevo inizialmente odiato quell'odore. Me lo ritrovavo nei capelli, nei vestiti, e nei panni che asciugavano al sole. Con il tempo, però, l'umidità di quelle terre verdi e rigogliose era divenuta famigliare, addirittura piacevole. C'erano giorni in cui, stanca del lavoro nei campi di grano, sedevo con le donne nella piccola piazza comune, inspirando a pieni polmoni il profumo del sale, fantasticando sulle alte coste. Lì dove il mare s'abbatteva impetuoso, ululando e cercando d'arrampicarsi lungo gli scogli, spumeggiando bianco.
    Le lenzuola battevano come fantasmi, appese al filo poco fuori dalla nostra abitazione. Una casa semplice, come tante altre, dotata di un giardino nel quale i rampicanti disegnavano lungo le staccionate, disegni intricati di smeraldo. Durante la primavera, il piccolo cortile era preso d'assalto da api e farfalle delicate, tutte impegnate a succhiare il dolce nettare delle rose che coltivavo. Autumn, mia figlia, amava la primavera, e spesso ci sdraiavamo nel folto dell'erba, lasciando che le farfalle ci danzassero attorno, nascondendosi tra i nostri capelli e solleticandoci la pelle. Avevo conosciuto Ivar che ero appena una bambina. A quel tempo vivevo a Collina del Corno, sotto la giurisdizione dei nobili Tyrell. La mia vita non era stata molto diversa da quella di qualsiasi altra ragazza di umili origini, fino a quel giorno. Ero una giovane di quindici anni, e mi occupavo del bestiame e dei campi, ed era stato proprio lì, tra le spighe di grano, che Ivar mi aveva vista. Aveva venti anni più di me, ed era un cavaliere senza fama né titoli. Aveva conquistato il cavalierato per sfuggire ad una povera vita fatta di merda di vacca e vuoto, ma quelli come noi non potevano andare troppo lontani da ciò che erano. A suo dire, nel momento in cui aveva posato i suoi occhi neri su di me, aveva saputo che sarei stata sua, e che ci saremo appartenuti. Io, però, non ero stata dello stesso parere. Anche al tempo, Ivar era un uomo attraente, dai folti capelli scuri e la pelle appena baciata dal sole, ma non potevo sapere quanto lo avrei amato. Aveva presto chiesto la mia mano a mio padre, un uomo amorevole quanto semplice, che pur di darmi un futuro migliore, gliel'aveva concessa. Quando ci avevano presentati, ricordai con un sorriso divertito, io non ero scesa in alcun inchino. Voltandogli le spalle, invece, me ne ero andata, lasciando che mi seguisse. E così aveva fatto, correndomi dietro a passo veloce, pregandomi di fermarmi. Ivar aveva compreso in quel momento che si, sarei stata la donna della sua vita, ma avrebbe dovuto impegnarsi più di quanto credesse. Così aveva iniziato a corteggiarmi, facendomi trovare rose sulla porta ogni mattina, quando all'alba andavo alla lavanderia con le mie sorelle. Nel giro di poco tempo, ero divenuta l'invidia di tutte le ragazze di Collina del Corno.
    «Spero tu stia pensando a me» il cuore mi balzò in gola, riportandomi a Mistwood, mentre Ivar appariva nel candore delle lenzuola messe a stendere. Lanciai appena un gridolino, scoppiando poi a ridere. Il suo viso era illuminato da un bel sorriso, mentre con un balzo mi cingeva la vita, affondando il volto tra i miei capelli castani. Erano passati molti anni, da quel ricordo, ed erano cambiate altrettante cose. Eppure avevamo trovato nella vita coniugale, una stabilità serena, piacevole. Non v'era noia, semplicemente la dolce sicurezza di saperci sempre lì, presenti. Passavo le mie giornate occupandomi di Autumn e Loren, il primo figlio che avevo dato alla luce, del giardino e delle mansioni che spettavano ad ogni donna, sapendo che al mio ritorno a casa, avrei trovato Ivar ad attendermi. Mi piaceva quel genere di vita. Mi piaceva sciogliermi nei nostri attimi di intimità, quando i nostri figli erano ormai vittime di un profondo sonno, e le mani di mio marito mi cercavano gentilmente sotto le coperte. Gli anni che ci separavano non avevano mai voluto dire molto, per noi. Ivar era comprensivo, tollerante e protettivo, un padre attento ed un marito delicato. Poggiai le mie mani sulle sue, ridendo, e sfuggii alla sua presa, serpeggiando tra le lenzuola che si agitavano nel vento.
    «Non dovresti essere di turno?» Mistwood era una cittadina molto piccola, più simile ad un villaggio, attorniata da palizzate di legno che non avevano mai visto una guerra, per fortuna. Gli uomini si alternavano su quelle mura improvvisate, senza che ce ne fosse reale necessità. Ivar mi spuntò alle spalle, sollevando un lenzuolo per passarvi sotto, e quando le sue braccia mi cinsero nuovamente, mi trascinò con sé nell'erba alta, attento affinché il suo corpo mi evitasse qualsiasi urto col terreno. Iniziò a baciarmi scherzosamente, imprimendomi rumorosi baci sul viso, mentre io ridevo cristallina, cercando di dimenarmi.
    «Ho detto agli altri che avevo urgenza di vedere mia moglie» rispose, ridendo a sua volta, ed io scossi la testa, agitando i piedi. Inizialmente, le malelingue avevano avuto molto da dire sulla nostra differenza d'età, sebbene fosse molto comune per gli uomini prendere spose più giovani. Il punto, è che Ivar ed io ci amavamo, e quello era decisamente qualcosa di raro, in situazioni simili. Il mondo era pieno di coppie come noi, con la differenza che le mogli erano giovani sottratte alle loro famiglie, costrette a mettere al mondo figli che non desideravano. Ivar, invece, mi amava e mi rispettava, ed io gli avevo regalato un giovane forte e sveglio, ed una bellissima bambina dalle gote di ciliegia e gli occhi smeraldini. Con il tempo, comunque, Mistwood ed i suoi cittadini mi avevano accettata, soprattutto quanto la conoscenza delle erbe mi aveva permesso di aiutarli con la febbre ed i malanni. Gli uomini si rivolgevano a me, quando venivano feriti dai cinghiali durante la caccia, e le donne mi portavano i loro figli, affinché li liberassi dalla tosse con gli impacchi.
    «Ed ora arrenditi, prima che ti divori» avevo lanciato un piccolo grido, prima che Ivar mi portasse sotto di sé. L'erba era umida, e mi aveva bagnato le spalle, lasciate scoperte dall'abito di tessuto grezzo. Le labbra dell'uomo avevano continuato a tempestarmi di baci, finché ridendo avevo alzato le mani, ed i suoi occhi scuri avevano incontrato i miei, del verde scuro del bosco.
    «Mi arrendo! Mi arrendo...anche se siete un cavaliere prepotente» a quelle parole, mio marito aveva sorriso con un angolo delle labbra, quasi un ghigno che sul suo viso non poteva trovare però alcuna cattiveria. Alzai le mani tra i suoi capelli, lasciando che le mie dita si perdessero tra i suoi ricci scuri. Il tempo li aveva striati di un grigio appena accennato, come una spruzzata di neve, ed anche la sua barba ispida era divenuta più chiara. Ciononostante, Ivar serbava ai miei occhi la bellezza con la quale si era presentato molti anni prima, chiedendo sfrontato la mia mano. Le sue labbra si piegarono sulle mie, seppur senza sfiorarle.
    «Arrendendovi acconsentite affinché faccia di voi ciò che desidero, mia signora» recitò, e la sua espressione divenne seria. Ad uno sguardo sconosciuto, sarebbe potuto sembrare davvero così, ma ormai Ivar non aveva più alcun segreto per me, come io non ne avevo ai suoi occhi. Conoscevo ogni sua espressione, ogni inclinazione della sua voce. Gli posai l'indice sulle labbra, allontanandolo appena, per poi indicare la nostra casa con un cenno del capo. Mio marito sorrise, avvicinando il capo al mio orecchio, per sussurrarvi delicatamente.
    «I ragazzi stanno giocando nei campi...se stai attenta a non fare rumore, nessuno se ne accorgerà» il suo fiato era caldo e piacevole contro il mio collo, e sentii il corpo tendersi in un brivido di desiderio. Sopra di me, Ivar fece scivolare il ginocchio destro tra le mie gambe, premendo senza forza contro il mio sesso, coperto dai pesanti strati di abiti. Sospirai appena, mordendomi le labbra in quel modo che sapevo piacergli.
    «Non sono io quella che fa rumore, di solito» lo rimbeccai, scoccandogli un'occhiata maliziosa. A quel punto Ivar non si concesse altre parole, rubandomi un bacio che ben presto volle approfondire in un contatto più profondo delle nostre labbra. Gli legai le braccia attorno al collo, lasciando che mi mordesse appena il labbro inferiore, per poi scendere a baciarmi il collo, sciogliendo frettolosamente i lacci che chiudevano un corsetto di lana grezza. Le sue mani si riempirono dei miei seni, e la scia umida dei suoi baci continuò tra di essi, mentre il mio respiro perdeva il suo ritmo regolare e cadenzato. Non c'era imbarazzo, tra noi, come accadeva in molte altre coppie. L'intimità era qualcosa che vivevamo pienamente, senza restrizioni o imposizioni di alcun genere. In quei momenti, per Ivar e me, qualsiasi altra cosa cessava di esistere, o di avere anche il suo giusto posto nell'universo. Ci legavamo l'uno all'altra, ci divoravamo e ci nutrivamo dei nostri stessi respiri. Le sue mani erano quelle dure e rovinate di un uomo di spada, e di chi prima ancora d'esser cavaliere, aveva arato i campi, coltivato la terra e raccolto i frutti che questa ci donava. Eppure erano le mani più dolci e carezzevoli che avessi mai conosciuto. Non che ne avessi mai conosciute altre. Mi ero sposata giovane, e altrettanto presto gli avevo dato Loren. Non c'era stato modo per me di avere altri uomini, ma in fondo non ne avevo mai avuto il desiderio. Ivar era tutto ciò che potessi desiderare, e fare l'amore con lui non era mai stato un obbligo coniugale, tantomeno aspettare e crescere i suoi figli. Lo avevo fatto con gioia e con piacere, con dedizione e amore. Anche quando era scoppiata la guerra, mi ero resa conto di come Mistwood fosse un punto di pace, in quel mare di rivolte. E noi eravamo un porto sicuro, l'uno per l'altra, dove coricarsi e riposare. Dove essere cullati ed amati.
    «Sei così bella, Rose» sospirò contro la mia pelle, mentre le sue mani scivolavano sotto le mie gonne, alzandole lungo le cosce tornite, accarezzandole amorevoli. Gli avvolsi le gambe attorno al bacino, lasciando che premesse il suo sesso contro il mio, sorridendo al pensiero che dopo tutti quegli anni, ci desiderassimo ancora come quando ci eravamo conosciuti. Non era mai cambiato nulla, tra noi. Ivar era divenuto un uomo ogni giorno di più, mentre io ero cresciuta sotto i suoi occhi, lasciandomi alle spalle il corpo acerbo della bambina che ero stata, per vestire quello di una donna prospera e fedele. Gli presi delicatamente il capo, imprimendo un lungo bacio sulle sue labbra fine.
    «Voglio darti un altro figlio» mormorai, e lui sorrise dolcemente, prima che potessi accoglierlo dentro di me, nel mio calore, lì dove il confine tra i nostri corpi si faceva labile, sbiadito, impossibile da distinguere. Avevo sospirato, abituata alla sua amabile presenza dentro di me, lasciando che si spingesse sempre più a fondo, nascondendo i suoi sospiri rauchi contro i miei capelli. Ci eravamo amati lì, dove il vento gonfiava le lenzuola e faceva tremare le spighe, mentre i suoni del villaggio divenivano un eco sempre più lontano, distante, quasi impercettibile. Poi, come il respiro del mare, Ivar si era ritirato stancamente, scivolandomi accanto per non gravarmi del suo peso, il fiato corto contro la mia spalla. Quando era tornato ad aprire gli occhi, mi aveva sorriso, i capelli ricci scompigliati, la fronte appena baciata da piccole perle di sudore. Io gli avevo preso gentilmente la mano, portandomela sul ventre, lì dove il suo seme avrebbe generato una nuova vita, qualcosa di così piccolo, autentico ed estremamente prezioso.
    «Sarà un maschio» dissi, ed Ivar mi baciò le labbra ancora umide, accarezzandomi la pancia come potesse già avvertire il sospiro di una nuova esistenza agitarsi all'interno.
    «Come fai a dirlo?» ribatté, non schernendomi, ma semplicemente curioso. Con Loren e con Autumn, non avevo mai sbagliato, cosa che ormai lo portava a fidarsi delle mie previsioni in merito, e al tempo stesso a cercare di capire come potessi indovinare. Forse si era sempre trattato di fortuna. Forse, lo sentivo e basta, come una madre sente il battito del proprio cuore intrecciarsi a quello del figlio che porta in grembo. Alzai le spalle, ridendo divertita.
    «Semplice intuizione» gli feci l'occhiolino, e mio marito non trattenne una risata, afferrandomi e lasciando che posassi il capo sul suo petto, continuando a stringermi amorevolmente.
    «Ho sposato una strega...»

    I
    YOU, LIAR
    Mi portai sulle punte, spingendo le lenzuola oltre il filo da bucato, mentre il vento mi spingeva contro i panni. Tirava dal mare, furioso più del solito, ed il cielo era un volto crucciato e scuro, denso di scure nubi presagio di un temporale. Nella brezza, i tessuti schioccavano l'uno contro l'altro, frustati dal soffio salmastro. Mi passai una mano sulla fronte per detergermi dal sudore, mentre con la mancina mi tastavo delicatamente il ventre. Sotto la blusa di cotone avorio, il rigonfiamento era ormai abbastanza evidente, sebbene non mi impedisse ancora di muovermi e svolgere i miei compiti quotidiani. Quella piccola, fragile creatura che da cinque mesi aveva trovato una calda serenità dentro di me, sembrava essere qualcosa di estremamente nuovo e meraviglioso. Avevo già avuto due figli, eppure ogni gravidanza era come la prima, non ci si abituava mai ed era un'esperienza sempre memorabile. Loren l'aveva affrontata come un piccolo soldato, promettendo che una volta nato il fratello, lo avrebbe protetto dai ragazzi più grandi, cosa che già faceva con Autumn. A volte sedevamo davanti al camino, e mentre cucivo una trapunta per il giorno in cui mia figlia avrebbe lasciato quella casa per legarsi ad un uomo, rimanevo in ascolto dei loro discorsi. Le loro voci emozionate parlavano di tutto ciò che avrebbero potuto insegnare al nuovo fratellino. Loren fantasticava sulle lunghe giornate di pesca in riva al fiume, di tutti gli scherzi che avrebbero potuto ideare insieme, mentre Autumn si limitava a poggiare delicatamente l'orecchio sul mio ventre, ridacchiando e sospirando sorpresa ad ogni minimo singulto del piccolo. Anche l'umore di Ivar era nettamente cambiato, come era accaduto ogni volta che il suo seme aveva iniziato a germogliare dentro di me. Era sempre stato un uomo premuroso nei confronti della propria famiglia, ma in quel frangente diventava estremamente attento ad ogni piccola cosa. Quando ci coricavamo, mi abbracciava, attento ad ogni suo movimento, accarezzandomi a lungo la pancia finché non mi addormentavo. Mi piaceva quel clima di attesa, e tutto ciò che comportava. Un figlio in arrivo era in grado di cambiare ogni cosa, di rendere tutto più magico. Portava la pace, anche quando la guerra era alle porte.
    «Quando nascerà gli regalerò le mie bambole» aveva detto Autumn, battendo le piccole mani, emozionata.
    «E' un maschio, i maschi non giocano con le bambole» l'aveva corretta suo fratello, ma la piccola dagli occhi verdi non si era arresa, puntandogli un dito contro.
    «E tu che ne sai che è un maschio e che non gli piacciono le bambole?» con le piccole mani, mi aveva afferrato la gonna, tirandola affinché abbassassi su di lei lo sguardo.
    «Mamma puoi fare una femmina? Almeno posso giocarci insieme» avevo riso gentilmente, accarezzandole il capo castano, spiegandole che non spettava a me, ma alla Madre, decidere il sesso del nascituro.
    Alle mie spalle, i passi di Ivar mi destarono da quei ricordi, riportandomi nella distesa di lenzuola. Feci finta di non udirlo, sorridendo sottecchi, mentre continuavo ad aggirarmi tra i panni. Nel fischio del vento, potevo sentirlo scostare il bucato per raggiungermi con passo silenzioso, intenzionato a giocarmi il solito scherzo. Continuava a credere che non lo sentissi, ed io glielo lasciavo pensare. Dopotutto mi piaceva il modo in cui d'improvviso le sue mani mi cingevano le spalle, e la sua bocca sospirava una risata contro il mio orecchio, dicendomi "trovata!". Mi piegai a raccogliere altri panni nella cesta, e stavolta mi lasciai sfuggire una risatina, sapendo di essere ascoltata.
    «Ah, spero proprio che mio marito torni presto, stasera. Questo vento mi ha gelato le ossa...avrei proprio bisogno di un po' di calore, al momento» scherzai maliziosa, alzando il tono della voce in modo teatrale. Di solito, a quelle provocazioni, Ivar rispondeva gettandosi fuori dal suo nascondiglio, per afferrarmi ridendo, accusandomi di giocare sporco. I suoi passi si fecero vicini, e a quel punto potei avvertire la sua presenza alle mie spalle.
    «Bhé, potrei essere all'altezza del compito, ragazza» quella voce s'insinuò nella mia testa come la punta di un pugnale gelido, mentre il mio cuore sembrava fermarsi al'interno del petto. In quel momento, mi sembrò che anche il vento avesse cessato di soffiare. Il volo degli uccelli si fermò, i loro richiami non divennero che un suono impreciso, lontano, forse appartenente ad un'altra realtà. Il cesto mi cadde istintivamente di mano, mentre mi voltavo per incontrare i lineamenti di uomo dall'aria trasandata. Nulla in lui mi era familiare, e soprattutto la sua armatura non portava né i colori né lo stemma dei Baratheon, casa sotto cui era la giurisdizione di Mistwood.
    «Ti ho spaventata, ragazza?» il suo volto era un inferno di cicatrici, e sulla mascella squadrata cresceva folta una barba scura, striata di grigio. Rimasi a guardarlo con gli occhi sbarrati, cercando di riprendere lentamente il controllo di me stessa, mentre dissimulavo il panico con un sorriso teso.
    «Perdonatemi...pensavo...pensavo foste mio marito...» balbettai, raccogliendo in fretta il cesto dei panni. Il suo sguardo seguiva ogni mio movimento con attenzione, e lo vidi incrinare la bocca in un ghigno quando posò gli occhi sulla mia figura, come ne stesse studiando ogni forma. La sua mano si allungò verso di me, ed io tremai, cercando di discostarmi. Scostò una ciocca di capelli castani che mi era ricaduta sul volto, portandomela dietro l'orecchio, ma le sue dita si trattennero troppo a lungo sulla mia pelle, scendendo ad accarezzarmi la curva del collo, rigido per la tensione. Sopportai quel tocco in silenzio, immobile, incapace di dire o anche solo pensare nulla.
    «E' un uomo molto fortunato...» rispose, leccandosi le labbra in un modo che, in un'altra situazione, mi avrebbe aggrovigliato lo stomaco di disgusto. Mi strinsi il cesto al petto, sentendomi improvvisamente piccola, ed estremamente impotente. Intanto, la destra scese istintivamente sulla pancia, come bastasse a proteggere mio figlio da qualsiasi cosa quell'uomo avesse in mente.
    «Io...devo andare» riuscii soltanto a mormorare quelle parole, il fiato sembrava come essersi impigliato nella mia gola. Mi sottrassi velocemente al suo tocco, ma prima che potessi muovere anche solo un passo, il soldato straniero alzò le mani, come per assicurarmi che non avesse cattive intenzioni.
    «Tranquilla, ragazza. Sono un viandante, cercavo solo un pezzo di pane e del vino» sorrise, ma per quanto si sforzasse, tutto in lui continuava a sembrare estremamente crudele. Ogni suo tentativo si trasformava in una smorfia inquietante, indice che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di tremendo. Potevo avvertirlo, e le mie intuizioni, di solito, erano corrette. Lo guardai da capo a piedi, le labbra dischiuse come per dire qualcosa, e quando i miei occhi si soffermarono infine sul sangue fresco che gli colorava i guanti, il suo sguardo mutò improvvisamente. Sorrise, quasi animalesco, scoprendo denti più simili a quelli di una belva, e le sue mani cercarono di afferrarmi. In un balzo, mi lanciai oltre la fila di lenzuola, gettandogli la cesta tra i piedi. La superò in un salto, e con poche falcate mi fu addosso. Le sue dita affondarono tra i miei capelli, afferrandoli alla radice. Con uno strattone mi costrinse a fermarmi, gettandomi in ginocchio, e subito mi portai le mani al ventre, gridando.
    «Sono contento che tu l'abbia fatto, mi piace quando correte» rise, alle mie spalle, ma improvvisamente quel suono si trasformò come in un gorgoglio gutturale, e la sua presa si allentò, fino a sparire. Scivolai in avanti, terrorizzata, mentre osservavo lo squarcio sulla sua gola farsi di un rosso vivido. I suoi occhi ancora mi cercavano, sbarrati dello stesso terrore di cui si era nutrito fino a quel momento. Dischiuse le labbra, forse per urlare, ma un fiotto di sangue scivolò da esse. Poi, in un tonfo, ricadde con il volto a terra. Alle sue spalle, Ivar teneva ancora la spada grondante del suo sangue, ed il suo petto si alzava ed abbassava spingendo veloce il suo respiro affannato.
    «Rose! Rose stai bene?» mi corse incontro, gettandosi a terra per abbracciarmi. Lasciai che mi spingesse tra le sue braccia, trovandovi conforto come fosse un porto sicuro in cui sostare, in cui ritrovare la pace dopo una spaventosa tempesta. Avrei voluto rimanere ancora lì, aspettando che il mio cuore smettesse di battere incessantemente, ma Ivar mi distaccò con urgenza, afferrandomi per le spalle affinché potessi incontrare il suo sguardo. Aveva grandi occhi di paura, i capelli sporchi di terra, mentre da uno zigomo violaceo, colava un rivolo di sangue scuro.
    «Dove sono i ragazzi?» parlava veloce, troppo perché riuscissi ad afferrare le sue parole, che scivolavano nel vento, perdendosi chissà dove. Ed io lo guardavo, assente, senza capire, senza riuscire a reagire. Mi scrollò con forza, e a quel punto cercai di parlare, scuotendo confusa il capo.
    «In casa...sono in casa...» balbettai, e per un attimo mio marito sembrò rilassarsi, ma durò soltanto il tempo di avvertire le grida sollevarsi.
    «Stanno arrivando...Rose devi portarli via. Fuggite lontano, nascondetevi nel bosco» mi afferrò per il bracciò aiutandomi a tornare sulle mie gambe, che in quel momento si erano fatte molli, come non mi appartenessero. Mentre posava le mani sulla mia pancia, per assicurarsi che non fossimo feriti, cercai il suo sguardo, senza capire.
    «Ivar che sta succedendo!?»
    «Presto arriveranno al villaggio, dovete fuggire. Prendi i ragazzi e andate il più lontano possibile. Ti prego, fa presto» fece per allontanarmi, ma le mie mani non riuscirono a lasciarlo, aggrappandosi alle sue braccia con forza, come se sotto i miei piedi si fosse aperto un baratro.
    «Non puoi rimanere qui!»
    «Vi serve tempo...li distrarrò il tempo necessario a farvi scappare» mi assicurò, e a quel punto il mio viso s'incrinò in una smorfia, mentre le lacrime mi pungevano gli occhi. Ivar mi strinse a sé, per poi baciarmi le labbra fredde con foga. Se solo avessi capito...se solo avessi saputo che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio.
    «Non appena fa buio...aspettami al limitare della foresta, a sud. Vi raggiungerò lì» con quelle parole, mi costrinse ad allontanarmi, spingendomi via. Raccolse la spada, iniziando ad allontanarsi a passo veloce, mentre i miei piedi muovevano passi tremanti all'indietro, e nelle mie labbra colava il sapore salato delle lacrime.
    «Bugiardo»


    I miei figli mi avevano guardata entrare di corsa in casa, richiudendomi violentemente la porta alle spalle. La sbarrai, mentre vi spostavo davanti qualsiasi oggetto mi capitasse sotto mano. Autumn era seduta in terra, tra le sue bambole, mentre Loren aveva alzato lo sguardo dal piccolo braciere, confuso. Con il sudore che mi imperlava il volto e gli occhi grandi di paura, avevo gridato loro di alzarsi, ignorando le loro richieste di spiegazioni. Loren aveva intuito dal mio viso contratto, che stava accadendo qualcosa, così aveva afferrato la sorella tra le braccia, costringendola ad alzarsi da terra. Avevo afferrato una bisaccia, che stavo riempiendo frettolosamente di poche vivande.
    «Dobbiamo andare via, Loren prendi i mantelli» il ragazzo aveva obbedito subito, mentre Autumn continuava a seguire i miei movimenti, troppo piccola per poter comprendere la gravità di quella situazione.
    «Ce ne andiamo senza papà?» aveva chiesto, e quelle parole mi erano cadute sul cuore con una forza inesorabile, spezzandomi in due. Sapevo che avrebbe fatto male. Una volta che mi fossi fermata a pensare, a razionalizzare tutto ciò che stava accadendo...mi avrebbe distrutta. Ma ora non riuscivo a pensare ad altro che ai miei figli. Dovevo portarli in salvo, e dovevo fare in fretta, o Ivar sarebbe morto per nulla. In una diversa situazione mi sarei stupita del mio sangue freddo, del modo in cui mi apprestavo a lasciarci alle spalle ogni cosa senza il minimo battito di ciglia. Forse era merito del panico, o della sopravvivenza.
    «Papà ci raggiunge più tardi» stavo mentendo, e avrei continuato a mentire anche a me stessa, sperando che sarebbe accaduto. Loren posò il mantello sulle spalle della sorella, per poi legarsi alla cinta un coltello, un regalo di Ivar. Speravo con ogni fibra del mio cuore che non avrebbe mai dovuto usarlo.
    «Andiamo, veloci» li esortai, muovendomi verso un punto del pavimento, ma in quel momento la porta emise un fremito, e le voci concitate degli uomini che vi sostavano dietro, ci raggiunsero.
    «E' sbarrata» li sentii dire, e a quel punto compresi di non avere più tempo. Mi piegai a terra, infilando le unghie sotto le assi di legno del pavimento. Feci forza, finché non riuscii a scostarle, rivelando un piccolo nascondiglio, che altro non era che un buco nelle fondamenta della casa.
    «State qui dentro, non una parola. C'è un passaggio che porta fuori. Appena ne avete l'occasione, percorretelo, ed una volta usciti correte verso il bosco» sussurrai, per poi prendere tra le braccia Autumn e calarla all'interno. I suoi grandi occhi verdi mi guardavano come se non mi riconoscesse, ed erano colmi di lacrime.
    «Sarai una bambina coraggiosa? Promettimelo. Dai sempre retta a tuo fratello e non allontanarti mai. Capito?» la vidi annuire tristemente, sull'orlo del pianto, ma si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Aiutai poi Loren a scendere, e lasciandogli un bacio sulla fronte, feci per richiudere le assi.
    «Vieni con noi mamma» mi pregò, e per un attimo sentii che il mio cuore non avrebbe sopportato di dividermi da loro. Ma ancora peggio, non avrei sopportato di saperli in pericolo. Le mie labbra si sciolsero in un sorriso amaro, tremante, mentre un colpo alla porta mi costringeva a voltarmi febbrilmente.
    «Non appena fa buio, aspettatemi al limitare della foresta, a sud. Vi raggiungerò lì» ed in quel momento compresi quanto fosse costato ad Ivar, dirmi quelle parole, sapendo di mentire. Eppure era necessario. Dovevo dar loro una speranza, seppure inutile, o non mi avrebbero mai lasciata andare. Abbassai le assi, e gli occhi scuri di Loren mi seguirono, mentre le sue labbra s'incrinavano. Feci appena in tempo a rialzarmi, allontanandomi dal nascondiglio, che un altro colpo fece tremare l'intera casa. Mi addossai al muro, e la mano scese ad afferrare un coltello da cucina, che nascosi velocemente nel corsetto. Guardai in silenzio il rigonfiamento della mia pancia. Avrei voluto poterlo mettere in salvo. Poterlo dare a Loren, affinché li salvasse tutti...ma quel bambino non era che una parte di me, ancora. Potevo soltanto cercare di proteggerlo fino allo strenuo, per evitargli ogni dolore. Stavo salvando i miei figli, ma ne stavo condannando un altro...una scelta così crudele, per una madre.
    Quando l'asse della porta saltò, andando in mille pezzi, tremai, addossandomi al muro. Loren mi stava guardando, lo sentivo attraverso il pavimento. Sentivo il suo sguardo, e sperai che qualsiasi cosa avrebbe visto, sarebbe scappato con Autumn, lasciandomi lì.
    Infine, i cardini cedettero, e la porta schizzò contro il muro, alzando un nugolo di polvere. Potei distinguere fin da subito la sagoma di tre uomini. Stavo trattenendo il respiro, costringendomi a guardare in qualsiasi punto che non fosse il pavimento.
    «Carino qui» sghignazzò uno, sfilandosi l'elmo e gettandolo senza troppe cerimonie a terra. Il suono del metallo che rotolava sul legno, fu per qualche minuto l'unico rumore, e mi parve insopportabile. Un altro puntò immediatamente il suo sguardo su di me, sorridendo.
    «Pare che la fortuna sia dalla nostra...nell'ultima casa in cui siamo stati c'era solo una vecchia megera» con le mani a sorreggere il ventre, li guardavo con terrore, cercando di respirare per quanto mi fosse possibile.
    «Prendete tutto quello che volete e andatevene. Ci sono delle monete, e alcune collane...» il primo fece un gesto vago con la mano, interrompendomi, mentre il suo passo non si arrestava, raggiungendomi.
    «A quelle penseremo dopo, non preoccuparti» i suoi occhi mi studiarono con attenzione, soddisfatti da ciò che vedevano, ma il suo sorriso assunse una nota di divertimento, quando poté scorgere la curva della mia pancia.
    «Tu devi essere la moglie di uno di quelli che abbiamo ammazzato...vediamo se riusciamo a consolarti» gli altri risero, seguendolo. Non potevo lasciare che mi avessero lì, non sotto gli occhi di Loren ed Autumn. E soprattutto, dovevo portarli dove non si sarebbero accorti dei loro passi veloci sotto al pavimento. I miei occhi correvano febbrilmente da una parte all'altra della casa, come per cercare una via di fuga. Ma non volevo fuggire. No, avrei affrontato anche quello, pur di salvarli. Solo, dovevo prendere tempo. In un movimento fugace, scattai verso la camera da letto, che era la stanza più lontana da lì. Mi seguirono, e non appena vi entrai, senza voltarmi, udii i loro passi dietro di me. La porta si richiuse. La sbarra di legno la bloccò. Inspirai lentamente, ed il tempo parve perdere ogni importanza, ogni valore, quasi fermandosi. Una mano si posò con forza sulla mia spalla, strattonandomi. Intravidi i loro volti. Intravidi l'odio. La ferocia. La crudeltà. Sentimenti che fino a quel momento mi erano stati sconosciuti. Un colpo al viso mi fece esplodere la faccia in un inferno di dolore, e ricaddi sul letto. Potevo immaginare. Potevo cercare di ricordare. Di riportare alla mente ogni notte passata con Ivar. Ogni attimo della nostra vita che avevamo consumato su quel letto. Potevo, certo. Potevo cercare di ignorare le loro mani, i loro denti mordermi la carne delle spalle, i loro pugni afferrarmi i capelli con forza. Ma se questo sarebbe servito a portare Loren ed Autumn lontano da lì, in salvo, allora avrei sopportato anche di morire.
    II
    WE CANNOT UNDERSTAND
    «E così sei l'unico che è riuscito a sopravvivere» le mie mani si muovevano attente, mentre passavo l'ago sotto la pelle dell'uomo, stringendo i lembi della ferita sulla sua coscia. Ogni volta che la punta gli pizzicava la pelle, questo sobbalzava, sibilando, ma dopotutto mi ero dovuta occupare di feriti decisamente meno stoici, come Autumn, che per quanto promettesse di stare buona, finiva per agitarsi come un coniglio in gabbia, prolungando le cose all'infinito. L'uomo di cui mi stavo occupando non doveva avere più di trent'anni, il volto era glabro e curato, segno che probabilmente si trattava di qualche figlio della nobiltà, e non di un comune mercenario. L'avevo trovato fuori dall'entrata della grotta che si trascinava la gamba sanguinante, usando un vecchio stendardo per sorreggersi. Loren avvicinò la candela alle mie mani, quando gli feci cenno di farmi luce. Sul suo volto ancora da bambino, avevano iniziato a crescere i primi ciuffi di una barba troppo rada ed irregolare per essere quella di un uomo fatto, eppure lui ne andava estremamente orgoglioso, rifiutandosi di tagliarla. Sua sorella l'aveva subito odiata, poiché si lamentava che ogni volta che le baciava le gote, quei piccoli peli le pungevano la pelle, irritandola. Eppure neanche le lamentele costanti della bambina avevano potuto nulla contro la testardaggine di mio figlio.
    «Esatto...io avevo la mia borraccia, l'avevo riempita poco prima di addentrarci nel bosco, quindi non ho bevuto dalla fonte. Ma gli altri...hanno iniziato a crepare come mosche, uno dopo l'altro. Si sono presi la febbre, vaneggiavano, avevano la schiuma alla bocca...e poi sono morti» lo ascoltai, mentre raccontava i tragici eventi che lo avevano portato fin lì, nel cuore più fitto e scuro della foresta. Negli anni che erano passati dalla fuga da Mistwood, non avevamo abitato sempre lì dentro. Inizialmente avevamo viaggiato in cerca di un nuovo posto dove stare, ma la guerra era infine giunta ovunque, su quelle terre, devastandole. Di villaggio in villaggio, ci sentivamo braccati dall'ombra della violenza. Eravamo anche tornati a Collina del Corno, dove ero nata, ma i miei genitori erano morti durante la carestia dell'assedio, e le mie sorelle avevano lasciato quelle regione il più in fretta possibile. Ci eravamo stabiliti lì, per un po' d tempo, sperando che le guarnigioni di Lord Tarly ed i Tyrell potessero proteggerci dalla guerra, ma se era vero che la violenza non ci aveva raggiunti, era altrettanto vero che ormai non fossimo ben accetti, lì. Ero una donna sola, venuta da chissà dove, con due figli al seguito. Inoltre le mie doti di guaritrice e la mia conoscenza delle erbe, mi avevano immediatamente fatto terra bruciata attorno. Era stato inutile spiegare loro che Loren ed Autumn fossero nati da un matrimonio, e non fossero bastardi. La gente voleva credere soltanto a ciò che gli faceva comodo. Ed in quel periodo di terrore, tutti quanti bramavano un capro espiatorio contro cui sfogare le proprie frustrazioni, i propri dolori. Non potevano accusare i loro signori, cui importava soltanto di proteggere i propri palazzi, così finivamo per riversare la propria insoddisfazione sui deboli, sui diversi e sugli stranieri. In poco tempo, sulla mia casa erano iniziate ad apparire scritte quali strega o puttana. Le avevo sopportate, così come avevo sopportato gli sguardi, gli insulti e gli spunti ovunque andassi. Quando però degli uomini si erano presentati a casa mia, convinti che fossi una prostituta e totalmente incuranti delle mie proteste in merito, avevo capito di dover andare via. Li avevo affrontati brandendo l'attizzatoio del camino. Lo stupro era diventato come la minore delle minacce, per me. Lo avevo subito. Sapevo di cosa si trattasse, e sapevo che non mi avrebbe uccisa. Sapevo di essere più forte di un branco di cani rabbiosi. Loren, questo lo aveva capito. Quando aveva portato via Autumn dalla nostra casa, aveva capito perché avessi condotto i soldati nella camera da letto. Non ne avevamo mai parlato, e nessuno dei due aveva mai dato cenno di voler riaprire quella parentesi. Eppure continuavo a chiedermi cosa provasse. Cosa pensasse, di me. Provava pietà? O Rabbia? Mi vedeva come un martire o come io stessa mi vedevo allo specchio: sporca?
    Quando gli uomini che avevano distrutto Mistwood avevano finito con me, avevano pensato bene di uccidermi. Io ero rimasta per ore su quel letto, sentendoli alternarsi, prendere da me ciò che desideravano senza la minima pietà. Ogni volta che mi ero sentita svenire, mi avevano costretta a rimanere sveglia. Dicevano che dovevo vivere quel momento nella sua completezza. Così, dicevano. Eppure non potevano immaginare, quanto più completo di ciò che immaginavano, fosse. La consapevolezza di aver perso il bambino. Quello. Quel particolare, aveva reso tutto più reale. Aveva posto una fine ad ogni dolore. Aveva cancellato ogni cosa mi avessero fatto. La violenza, in confronto, era stata nulla. Quando ero stata sicura che i miei figli fossero ormai lontani, e che non avessi più nulla da perdere, avevo afferrato un vaso sul comodino, spaccandolo contro la testa di uno degli uomini che continuava ad agitarsi sopra di me. Aveva sgranato gi occhi, prima di svenire a terra, inondando il pavimento con il suo sangue. Prima che gli altri potessero reagire, avevo sfilato il coltello che tenevo nascosto nel corsetto. La lama era affondata nell'occhio di uno dei due, così a fondo da arrivare al cervello. Non avevo provato nulla. Non soddisfazione, né odio, né piacere. L'ultimo aveva cercato di scappare verso la porta, doveva avevano lasciato le armi, e quando lo avevo raggiunto, mi ero gettata sulle sue spalle come un animale, priva di qualsiasi razionalità. Ero divenuta una bestia, e di questo loro erano colpevoli. Di avermi trasformata. Di avermi resa così poco umana. Lo avevo colpito tra le spalle così tante volte che il suo sangue aveva preso a schizzarmi su tutte le mani, e anche quando aveva tracollato a terra senza vita, avevo continuato. Colpivo con forza, gridando, e gridando ancora. Colpivo, sentendo la sua carne ridursi a brandelli, finché le braccia non si erano fatte stanche, e la presa sull'elsa troppo scivolosa per via del sangue.
    Con i miei figli, avevo mantenuto la promessa. Mi avevano vista arrivare, al calar della notte. I capelli scompigliati e zuppi di sangue e terra, le mani ancora tremanti. Autumn aveva pianto, spaventata, Loren non aveva detto nulla. Ivar non aveva mantenuto la promessa. Non quella notte. Non quella successiva. Mi ero recata in quel luogo, a quella stessa ora, per un anno. Ma di lui, non avevo intravisto neanche l'ombra. Solo il vento mi aveva portato l'odore dei corpi bruciati, ed insieme ad esso, il suo ultimo respiro.
    Tagliai il filo con i denti, assicurandomi che la ferita fosse ben cucita, prima di pulirla dal sangue con un panno intriso d'acqua.
    «C'erano cadaveri nell'acqua? Di solito bastano ad avvelenarla per giorni» lui aveva scosso la testa, guardandomi serio.
    «E' stata la strega, ne sono sicuro» a quelle parole, le mie mani si erano fermate, e lentamente avevo alzato lo sguardo nei suoi occhi nocciola, impassibile. Da quando eravamo tornati nella grotta, consapevoli che nessun altro luogo ci potesse accogliere, avevo sentito il bisogno di proteggerci. I soldati si addentravano spesso all'interno durante le marce, per cacciare o accamparsi. Se ci avessero trovati, questa volta non sapevo cosa sarebbe potuto succederci. Così una leggenda terribile era nata. Una leggenda abbastanza spaventosa -ed abbastanza reale, dati i cadaveri che venivano ritrovati vicino alle sorgenti e ai piedi degli alberi- da proteggerci.
    «La strega? Io credo semplicemente che i vostri nemici abbiano deciso di logorarvi dall'interno, avvelenando le fonti e sgozzando come maiali tutti quelli che si separavano per pisciare» mi alzai, e Loren non mi seguì con lo sguardo, rimanendo invece con gli occhi fissi sull'uomo. In quegli anni, il suo odio non si era mai placato, né il mio. Un odio che riversava contro ogni soldato avesse la malaugurata idea di alzarsi durante la notte per lasciare il campo.
    In una parete della grotta, in alcuni fori naturali, avevo riposto barattoli di erbe, macinati e fiori vari. Con il tempo, quel luogo incolto si era trasformato nella nostra casa. Un antro spaventoso, all'esterno, quanto accogliente all'interno. Lì, almeno, eravamo al sicuro. Preparai un pestatoio, dove iniziai a macinare varie erbe, aggiungendo di tanto i tanto dell'olio per amalgamarle.
    «Mia signora...voi vivete qui dentro, dovreste sapere cosa si aggira tra questi alberi» avevo sorriso, con una dolcezza quasi materna, tornando la mio lavoro.
    «Cinghiali, caprioli, lepri...e soldati mezzi morti che vanno raccontando di una strega» risposi, ridacchiando. L'uomo rise a sua volta, ma Loren non ci seguì, rimanendo impassibile, le mani a sostenergli il mento, lo sguardo vuoto.
    «E cosa vi dice che non sia io, quella strega?» scherzai, ma sul mio viso non v'era alcun sorriso, ora. Soltanto un'espressione neutra, che illuminata dal bagliore del fuoco sembrava colorarsi di una luce sinistra. Il giovane rimase per qualche attimo in silenzio, come soppesando quella possibilità, ma poi scoppiò a ridere, sinceramente divertito anche solo da quel pensiero.
    «Siete troppo bella per esserlo, e troppo gentile. Voi salvate gli uomini, non li uccidete come una vigliacca, nascosta nella nebbia e nel buio, dove un uomo non può affrontarla a viso aperto» mio figlio ebbe un fremito, non gradiva evidentemente il tono delle sue parole, e ancor meno quei complimenti sfrontati. Smisi di pestare le erbe, per poggiare la schiena contro il masso che usavo come tavolo.
    "Solo gli stupidi credono a ciò che vedono, ragazzo", pensai, senza però dar voce a quel pensiero. Spostai lo sguardo su Loren.
    «Loren, è ora di mettere a letto tua sorella. Andate a dormire, finisco di occuparmi di questo giovane da sola. Per stanotte dormirà qui» impiegò qualche attimo ad obbedirmi, poi si alzò in silenzio, venendomi incontro. Allungai la mancina, per accarezzargli dolcemente il capo dai capelli ricci e scuri. Ogni giorno, mi sembrava di vederlo prendere le sembianze di suo padre, e la fierezza del suo sguardo sembrava la stessa. Lo abbracciai dolcemente, baciandogli la fronte, e quando mi ebbe augurato la buona notte, ci lasciò ritirandosi nel fondo della caverna. In realtà, quel luogo era molto più grande di quanto sembrasse. Dall'entrata, dove ci trovavamo, si snodavano alcuni budelli, sempre più a fondo nella madre terra. Lì avevamo ricavato qualcosa di molto simile a delle camere dove dormire. Con il tempo, le creature della notte che entravano a trovare il loro riparo, erano divenute delle presenze innocue, familiari.
    Incrociai le braccia sul petto, riportando lo sguardo sul soldato.
    «Magari questa strega ha paura di voi, è per questo che non si rivela quando vi uccide» a quelle parole, scosse con veemenza il capo, facendo un vago gesto con la mano. Nei suoi occhi, c'era odio. Una rabbia forte, ma non era abbastanza. Era furia, non dolore. E la furia non fa che rendere più ripida la discesa verso i sette inferi. No, lui non aveva sofferto. La perdita dei suoi compagni non era che un taglietto nella sua armatura lucente d'orgoglio, ma non era stato colpito nel profondo. Non poteva sapere. Non poteva capire. Non poteva vedere.
    «E' solo una vecchia crudele che trae piacere dall'uccidere uomini innocenti...»
    «O forse...» lo interruppi, prima che potesse continuare. «...forse è solo una donna ferita, umiliata, distrutta, braccata. Una donna che non ha più nulla...e che tenta disperatamente di difendere qualcosa. Il dolore ci rende dei mostri. Non esiste innocenza, di fronte alla sofferenza» rimase per qualche attimo in silenzio, ma poi scoppiò a ridere, cercando di alzarsi.
    «Voi donne avete sempre una versione romantica per ogni storia» mi denigrò, scuotendo la testa. Inspirai lentamente, sorridendo a mia volta. Noi donne...noi creature dall'animo romantico. Quanto orrore dovevamo sopportare, per uomini del genere? Era una colpa, essere romantiche? Era una colpa, essere ciò che eravamo? Venivamo stuprate, tradite, uccise, per il nostro essere romantiche. Per il nostro saper amare prima ancora che odiare. Preferivamo portare in grembo figli, che i loro cadaveri tra le braccia, e per questo venivamo punite. Ci costringevano ad essere posate, silenziose, calme, accondiscendenti. A non ribellarci mai, ad essere gentili anche con chi ci mancava di rispetto. A non essere volgari, violente, feroci. Ma poi pagavamo un duro prezzo, per non esserci potute difendere. Per non averne avuto i mezzi.
    «Noi donne ci illudiamo semplicemente che la realtà sia meno cruda. Per quello esistono gli uomini» dissi in un sorriso, prima di avvicinargli il bicchiere di ferro in cui avevo raccolto la mistura.
    «Bevete, è un infuso che allevierà il dolore. Dormirete come un bambino» l'uomo sorrise, accettando di buon grado e bevendo d'un solo sorso.
    «Prima che ve ne andiate...non sono in contatto con ciò che accade fuori da qui...ma ho avvertito del fumo, stamane...» impiegò qualche attimo a ricordare, poi annuì.
    «Il vento deve aver portato la cenere di un villaggio vicino...eravamo lì prima di arrivare alla foresta» finsi sorpresa, portandomi una mano davanti alle labbra, con rammarico. Il soldato notò il mio dissenso, e sembrò a disagio, alzando le spalle, cercando di giustificarsi. Ma dalla sua bocca provenivano soltanto parole impossibili da giustificare alle mie orecchie.
    «Vedete...è la guerra...le donne non possono...»
    «Non possiamo capire. E' vero. Avevo un marito, una volta. Era un soldato...quando mi parlava di strategie militari...per i sette dei, smettevo di seguire i suoi discorsi dopo neanche dieci minuti. No, noi donne non capiamo la guerra» sorrise, sollevato dal tono apparentemente leggero con il quale avevo pronunciato quelle parole. Lo esortai a sdraiarsi su un giaciglio di fortuna, chinandomi accanto a lui per poterlo guardare in viso.
    «Però capiamo il sacrificio. Capiamo cosa significa salutare un marito, e doverlo seppellire. Dover proteggere i nostri figli, doverli nascondere quando i soldati irrompono nei villaggi. Capiamo il sangue, e la morte, e la violenza...e capiamo che la guerra dovrebbero farla i soldati, non gli innocenti» la mia bocca si era tramutata in un taglio crudele, e da quella posizione potei vedere l'espressione dell'uomo farsi seria, il terrore un serpente che gli scorreva sulla pelle. Aprì la bocca, per protestare, ma gli mancò il fiato, mentre si portava le mani alla gola, sentendola riarsa.
    «E capiamo il dolore, l'annullamento, la morte... » una densa schiuma bianca gli ribolliva tra le labbra, mentre le vene lungo il suo collo si facevano gonfie e violacee. I suoi occhi sbarrati chiedevano una pietà che non avevano mai concesso. Mi abbassai su di lui, ad un soffio dal suo viso, per osservare meglio la vita lasciare i suoi occhi terrorizzati.
    «E quando siamo stanche di capire e cessiamo di essere vittime per diventare carnefici...ci considerate streghe»

    ©
    ᴄᴏᴅɪᴄᴇ ʀᴇᴀʟɪᴢᴢᴀᴛᴏ ᴅᴀ ᴀɴᴇsᴛʜᴇsɪᴀ. ᴇ' ᴠɪᴇᴛᴀᴛᴀ ʟᴀ ᴄᴏᴘɪᴀ ɪɴᴛᴇʀᴀ ᴏ ᴘᴀʀᴢɪᴀʟᴇ. ʀɪsᴘᴇᴛᴛᴀᴛᴇ ɪʟ ʟᴀᴠᴏʀᴏ ᴇ ʟᴀ ᴘᴀssɪᴏɴᴇ ᴀʟᴛʀᴜɪ, ɢʀᴀᴢɪᴇ › face sarah stephens

    Edited by the witch - 29/6/2015, 20:07
     
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  2. the witch
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    User deleted


    Conclusa <3
     
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1 replies since 29/6/2015, 14:11   208 views
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